Falkenbach – “…Magni Blandinn Ok Megintíri…” (1998)

Artist: Falkenbach
Title: …Magni Blandinn Ok Megintíri…
Label: Napalm Records
Year: 1998
Genre: Viking/Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “…When Gjallarhorn Will Sound”
2. “…Where Blood Will Soon Be Shed”
3. “Towards The Hall Of Bronzen Shields”
4. “The Heathenish Foray”
5. “Walhall”
6. “Baldurs Tod”

Non così diversamente da molte altre diramazioni andate via via definendosi nell’oscuro sottomondo blackish, si può ad oggi chiosare sul fatto che il tanto dibattuto filone vichingo del genere sia sgusciato fuori dalle membra spasmodiche di un linguaggio colto, almeno nella sua conformazione originale, esattamente nel delicato momento di metamorfosi tra due epoche: la prima delle quali destinata a rimanere nella coscienza collettiva quale golden age indiscussa (ci aggiriamo, per dirla in banali numeri, intorno al quadriennio composto dai monoliti ’94 e ’95 racchiusi tra i comunque fondamentali prologo ’93 ed epilogo ’96), mentre la seconda assai più difficile da categorizzare, figlia com’è dell’affermarsi di nuove scene e tendenze assai agguerrite nonché delle diaspore creative che affliggono a quel punto quelle già in azione. Del resto, nel complicato 1997 erano già avvenuti episodi in netta controtendenza allo zeitgeist antecedente, con i Dimmu Borgir che scalavano le classifiche di vendita come nessuno prima di loro ed i fondativi Mayhem che osavano voltare pagina mediante l’audace tocco modernizzato del mini “Wolf’s Lair Abyss”; calzante perciò che, con un presente ed un futuro assai meno delineabili di poc’anzi, gli spiriti più inquieti si rivolgano all’ancestralità del loro bagaglio storico, e con esso tirino su una realtà alternativa che nulla ha dei proclami tra rivoluzione Punk e terrorismo Metal dei giovani iniziatori.
C’erano stati gli assoluti precursori Enslaved ed Helheim, che da soli avevano riabilitato un avveniristico eppure ben poco glorificato “Blood On Ice” scrollandone via la neve di dosso, seguiti a ruota non soltanto dai momentanei lampi di luce artica di Kampfar ed addirittura Gorgoroth (l’inaspettata “Profetens Åpenbaring” sul multipolare “Under The Sign Of Hell”) ma pure dalla maggiore lena giovanile dei debuttanti Mithotyn e Windir; e proprio allo scadere dell’annata sorge poi l’alba di un sole morente musicata dagli Hades, autori al contrario del tassello a mani basse più nero, rumoroso ed offuscato di tutto il movimento pagano, ormai divenuto inarrestabile tanto in Norvegia quanto nei paesi più vicini.

Il logo della band

Proprio da lì parte Vratyas Vakyas, addirittura un anno anzitempo: tra i solchi dell’“…En Their Medh Riki Fara…” uscito per l’ancora poco nota No Colours e parecchio calato nel contesto a base di bpm ridotti e synth notturni con cui certi virtuosi compagni di scuderia avevano non casualmente farcito i vari “For All Tid” ed “As The Wolves Gather”. Ciononostante, il suono più rotondo rispetto alle ronzanti frequenze norrene e qualche piccolo fraseggio in maggiore fanno nel 1996 già pensare a nuovi orizzonti, ad una terra ardentemente attesa ed in qualche modo lontana dai morsi del freddo e della guerra sino ad allora imperanti nell’iconografia pagana su chitarre distorte. Allo scopo di raggiungerla, l’imbarcazione di nome Falkenbach inaugurata quasi una decade addietro approda all’ancora ragguardevole molo di Napalm Records e fa scorta di quel gusto per il fantastico, per l’escapismo verso altri mondi che ha nei Summoning freschi di due capolavori fatti e finiti i propri cantori di punta, non soltanto nel recinto dell’etichetta loro connazionale; del resto se c’è una cosa che ancora manca ai norvegesi su quelle coordinate temporali è infatti l’epica di senso classico, fino a quel momento tenuta a freno dalle tenebre ataviche le quali, almeno secondo quanto inciso in “Jormundgand”, “Vikingligr Veldi” e “The Dawn Of A Dying Sun”, avvolgono da sempre la Terra dei Fiordi, costituendo la causa ultima per cui da quei desolati luoghi di confine era discesa l’orda nera d’inizio Nineties.
Forte al contrario della più sincera enfasi teutonica, forse anche un po’ fine a sé stessa eppure così pivotale nell’evoluzione da esso disegnata, “…Magni Blandinn Ok Megintíri…” inietta i suoi caldi toni ocra nelle visioni del ramingo Markus Tümmers, e con queste ultime spazza via definitivamente la cupa wilde jagd in bianco e nero ed i misteriosi scritti in runico figuranti sulla livrea del predecessore come il sole fa con le nuvole dopo la tempesta infuriata due anni prima.

Vratyas Vakyas

Non sono perciò le inquietanti immagini di bellicosi giganti di fuoco ed enormi serpenti marini a farsi strada al suono del mitico corno da guerra citato dal titolo dell’opening track, quanto più la sensazione di onnipotenza provata dal girovagante cantastorie nel ritrovarsi precisamente nel mezzo dello scenario ritratto in copertina, con le frustate di vento marino sul volto ed il cuore gonfio di orgoglio per quella capacità di connessione agli antichi avi – magari labile nella vita quotidiana, eppure tanto tangibile una volta che egli si avvale dei suoi fidati strumenti per rimembrarne le gesta.
Vi è una sensazione di pace che regna su pressoché tutti i tre quarti d’ora di cui è composto “…Magni Blandinn Ok Megintíri…”, e che ne rappresenta l’autentica cifra stilistica apportata da Falkenbach ad un genere appena nato e tuttavia già a rischio di rientrare in stereotipi sonori ed estetici che lo avrebbero reso assai presto fuori tempo massimo, ed oggi forse un residuato dell’exploit novantiano difficile da ripetere; buono per molti giusto per una saltuaria e posticcia riscoperta ogni qualche lustro. Qui invece, sin dal sognante incipit del grande classico “…When Gjallhorn Will Sound”, viene messo in chiaro che stavolta non è la battaglia contro l’usurpatore cristiano il punto tematico focale, bensì la meravigliata contemplazione di ciò che un tempo fu, idealizzato sì ma non per questo forzatamente artificioso come in troppi altri episodi della via metallica all’etenismo. Nonostante le urla del mastermind trovino ancora sfogo nei primi due capitoli della scaletta, con la seconda “…Where Blood Will Soon Be Shed” che a conti fatti è l’unico autentico rimando all’incedere ben più minaccioso dell’esordio, è tuttavia il distante cantato pulito a fare da protagonista col tono pacato ma severo di un padre che tramanda conoscenze e valori al figlio: topos bathoriano cui Falkenbach aggiunge una quadratezza ritmica ed un pathos tutti tedeschi. La marcia delle valchirie lungo “Towards The Hall Of Bronzen Shields”, oppure gli scambi tra soffici flauti e tonanti tamburi durante “The Heathenish Foray” sono infatti il paradigma vincente dell’approccio less is more ancora inestricabile dal progetto, dove dalla semplicità compositiva e di mezzi (anche se netto è il miglioramento a tutto tondo nel suono e nella resa della drum-machine qualora comparata al debut) ha origine un mosaico allo stesso tempo artigianale nelle singole tessere come sublime nell’immagine completa. Quando poi sono le tastiere a prendersi la scena nella seconda metà dell’immensa “Walhall”, innalzando un muro di fomento genuino come mai nel settore si era osato e nel frangente preparando il contrasto con la potenza drammatica della conclusiva traccia strumentale, allora è lì che l’outsider Vratyas Vakyas si consegna alla stessa leggenda di cui aveva voluto iniziare a cantare quasi un decennio addietro, e che avrebbe continuato a seguirlo ormai fedelissima durante le quindici estati a venire.

Coloro i quali hanno la fortuna di possedere una copia di questo venticinquennale gioiello, l’ultimo del monicker sotto forma effettiva di one-man band, oppure ne amano talmente tanto i favolosi brani da aver recuperato i testi dalle più disparate fonti, nello scorrere una volta ancora quelle liriche avranno forse modo di notare la presenza in ognuna di esse dei mitici corvi neri Huginn e Muninn, dettaglio forse non premeditato dall’autore ma che lega tra loro i pezzi rendendo “…Magni Blandinn Ok Megintíri…” non un effettivo concept album quanto più una raccolta di paesaggi, suoni, odori e vicende osservate con sereno distacco dai due messaggeri di Odino, poi romanticamente volati in Germania da un discendente islandese a fare da muse ispiratrici ad un artista in procinto di scrivere un piccolo pezzo di storia; un capolavoro ancora oggi modernissimo, scorrevole nella forma ed irresistibile nella sostanza.
Il secondo atto della saga Falkenbach porta insomma luce e quiete dove regnavano soltanto buio e terrore, poiché senza gli uni non sarebbe davvero possibile amare, temere o in ogni caso percepire gli altri; è l’ago della bilancia tra la fredda crudezza di “…En Their Medh Riki Fara…” e la gioiosa catarsi di Ok Nefna Tysvar Ty”, un’opera mediana la quale però incarna un’identità inconfondibile senza suonare affatto come tappa di passaggio, bensì quasi punto di arrivo di uno stile tutto. Equidistante dal Black antecedente come dal venturo Folk, qui si respira invece l’epos come lo intendevano i vecchi gruppi Epic Metal così tanto alla base del lavoro di Quorthon e quindi del Viking stesso: con la magia di melodie arcane sorretta comunque dalla concretezza di chitarra e batteria, a riprova di come la distanza tra i rustici Blue House Studios e le incantevoli coste del Mare del Nord possa essere azzerata dal semplice talento di un singolo individuo – colui che fece risuonare per la prima volta e come pochissimi altri il Gjallarhorn al di fuori della Scandinavia dando così il via ad un nuovo modo d’intendere ciò che oggi definiamo Pagan, ed a cui sin dal nome scelto per questo minuscolo angolo di oscurità virtuale tutti noi dobbiamo qualcosa.

Michele “Ordog” Finelli

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